Critica

2024

Prof. Andrea Danile

MARCO 5,9: PAREIDOLIA D’UN DELIRIO

Se dovessi trovare un lemma che accomuni la scultura “Marco 5,9” dell’artista col personaggio “Legione” dell’evangelista, probabilmente mi perderei nei meandri folli della simbologia e ne uscirei sconvolto, in quanto – spesso e volentieri – ci si accorge che il Male è talmente abile nel celare il suo volto che è in grado di assumerne molti e quindi nessuno: nonostante viva e lavori da anni nell’Alto Milanese, tanto la Sicilia pirandelliana quanto quella cattolica tradizionalista convivono atavicamente nella filosofia del Micciché, costituendo un connubio all’apparenza improbabile, ma in realtà bene integrato.

Lo scultore infatti è molto abile nello scegliere – quasi fosse un moderno cabalista – una particolare numerologia atta a rappresentare le sue deliranti e micidiali visioni: si pensi al numero 5, od ai colori ed alle dimensioni del volume della scultura.

Cinque sono gli elementi della cosmologia taoista (acqua, fuoco, terra, legno e metallo), così come altrettanti sono i materiali adottati da Giuseppe (polistirolo, olio, gesso, legno e vetro): una simbologia diversa, ma altrettanto delirante, in quanto da una parte abbiamo cinque elementi che danno la vita, ma dall’altra abbiamo cinque materiali che possono renderla molto difficile.

Così come cinque dita unite possono consentire ad una mano di sferrare un pugno, questi cinque materiali – diversi ma complementari tra loro – possono dar vita all’abominevole visione di un Umanità che cede il passo rassegnata alle stesse brutture che ella stessa ha inflitto al mondo: impassibile ed indispettita quindi resta la Natura, la quale sembra fatalmente arrendersi mentre, lì in un angolino, anche se in verità è pronta a colpire – tanto con tifoni quanto con terremoti – nel momento in cui meno ce lo si aspetta.

Questi sono i cinque elementi di cui è intriso Marco 5,9:
il polistirolo un po’ è l’icona dell’artificio di una società tristemente asettica, fortemente industrializzata, fintamente candida ed al contempo irrimediabilmente atomizzata (si pensa ai candidi pallini che con le stesse dimensioni di un punto fermo ne compongono la struttura);
l’olio rappresenta il “crisma” che le istituzioni usano per bollarci da piccoli ed entro cui – volenti o nolenti – siamo condannati a rimanere invischiati, per poi costringerci (come il composto) un po’ a galleggiare ed un po’ ad annaspare nel mare dell’Esistenza;
il gesso, che ad alcuni può ricordare la scuola, indica la porosità dei certi valori d’innanzi al Tempo che inizialmente resistono ma che – a contatto col vuoto nero della lavagna dei problemi insormontabili – cedono un granello alla volta, come quelli di una clessidra;
il legno – in quest’opera l’unico elemento naturale – costituisce il materiale di cui son fatte le nostre “croci” che col loro opprimente e fanatico dogmatismo abbiamo scelto di trasportare sulle nostre penose spalle, che, seppur larghe, prima o poi finiranno per piegarsi;
il vetro è il materiale della falsa trasparenza e che, molto spesso – come fanno i mezzi di comunicazione di massa – ci presta un falso riflesso della Realtà e che, contemporaneamente, se cerchiamo di infrangere, provocherà il collasso emozionale di chi rifiuterà la Verità.

C’è tuttavia anche del Carpenter in Marco 5,9, in quanto i riferimenti ad “Essi Vivono” letteralmente non si risparmiano: un Male celato da “una fisionomia che mi sfugge” (per citare Carlo Verdone in “Zora la Vampira”, capolavoro dei Manetti Bros.) e che si può cogliere solo con alcuni filtri che certamente non si possono acquistare in una costosa bottega di occhiali firmati.

Il castigo per chi ha visto è quindi l’emarginazione da parte di quella stessa società che non ha coscienza (se non immagine) di sé, sempre che non l’abbia mai avuta …

Anche i colori non sono scelti secondo il criterio che si usa per estrarre i bussolotti della lotteria, in quanto tutto è il frutto di una certa abilità comunicativa ed iconografica: il volto è cupo (qui si noti la negredo alchemica), privo di tratti somatici (spersonalizzazione qualunquistica dell’Io) ed avulso dal manifestare una qualsivoglia umana espressione tipica della mimica facciale da noi conosciuta; da quel che sembrano i lobi parietali ed occipitali gronda – come da una “testa vuota” – l’oro, lo stesso vile metallo che alcuni interpretano come simbolo del denaro, ma che altri conoscono quale il simbolo dell’Illuminazione, del Sole e della Divinità; lo stesso oro però, nelle menti degli stolti e degli invidiosi, provoca “sete di sangue” che – ahinoi – zampilla rosso (la rubedo degli alchimisti) dalla giugulare confusa di un collo tremendo, consumato e disumano poiché mozzato dagli stessi di cui prima ho fatto menzione.

Un richiamo alla Rivoluzione Francese ed al Terrore? Che la sete di denaro (simbolo di vanità) provochi il folle desiderio di auto-decapitazione – intesa come auto-annichilimento, od auto-castrazione, delle facoltà emozionali, creative, coscienti e razionali – da parte dell’Essere Umano? È l’oro a chiamare il sangue (elemento che per le culture più ancestrali si è spesso identificato coi concetti di Anima o di Spirito) o si tratta dell’esatto contrario? Il Male esiste in quanto assenza di Bene o tutto questo è il risultato di una moltitudine concatenata di eventi asseribili da un catastrofico “Effetto Locusta” che – al pari di una pandemia – ha diviso l’Umanità ed al contempo l’ha costretta ad auto-annientarsi?

Da ultimo, un riferimento alle dimensioni: che sia un caso che il volume dell’opera misuri 36.000 centimetri cubici? È un ulteriore caso che la radice cubica di tale numero ammonti (stimando un arrotondamento ad un numero intero) a 33? Sarebbe quindi lecito dire che – ritenendo il 33 un numero simbolico che richiama valori messianici – ci sia una dicotomia tra il protagonista del passo di Marco 5,9 (lo stesso che annienta “Legione”) e le dimensioni dell’omonima opera che l’autore ha deciso di creare? In altre parole e per concludere, in una società dimorfe può trovarsi la Salvezza?

Prof. Andrea Danile

2021

CAM Mondadori Ed. 57 pag. 318

Giuseppe Miccichè

NOTA CRITICO BIOGRAFICA

Periodi. Dopo iniziali tendenze realiste e surrealiste, influenzato principalmente dall’opera di Hopper e Magritte, volge verso la sintesi grafica in guisa ai modelli di S.Bass. Segue un periodo in cui la scenografia diventa l’oggetto dialettico di riferimento, stregato dalla presenza in scena di strutture trascendenti presenti nel cinema di Carpenter e Cronenberg, dai quali eredita una visione estrema, cruda e corrotta della realtà. Caratteristica della sua tecnica espressiva è la fusione di elementi eterogenei e spesso antinomici che contribuiscono alla manifestazione di autentiche scene concettuali: attraverso la lavorazione dell’argilla propone uno stile misto che è difficilmente catalogabile o prevedibile nel tempo. Il colore è solitamente mono o bicromatico, rara è la presenza di sfumature.

Soggetti. La consapevolezza di una società egoista e disgregata suscita composizioni complesse, talvolta proposte in forma allegorica, che danno spazio a tematiche come l’alienazione umana in tutta la sua aporeticità, e alla questione sempre attuale, perché fuori dal tempo, della ὕβϱις (hýbris). Le sue opere coinvolgono l’osservatore ad un domandare paradossale, senza possibilità forse di risposta, talmente la risposta ha anticipato la domanda. I titoli delle opere sono anch’essi grimaldello ermeneutico e ingresso principale al suo pensiero. Emblematica è #Prigionesilenziosa3. Pensare con Miccichè vuol dire gettarsi nei rapporti della viva prassi, significa intraprendere un viaggio (experίri) verso l’interiorità, dove colpevole ed imputato tragicamente coincidono. Con i suoi gesti artistici costringe la natura determinata empiricamente a fare altro da ciò che da sola non farebbe. Nel suo linguaggio il metodo si fa sostanza, lo strumento cosa, il pensare essere, il volere creazione, la prigione libertà, il nulla tutto.

Tecniche. Modellazione dell’argilla, del polistirolo cartonato e delle masse di colore a olio. Acquerello su terracotta o su carta, utilizzo dello spray acrilico su qualsiasi superficie compatibile. Composizione grafica digitale di stampo surrealista.

CAM ed. 57 Catalogo dell’Arte Moderna Mondadori, p. 318

2021

CAM Mondadori Ed. 57 pag. 200

Giuseppe Miccichè

Si è formato tra l’Accademia di Belle Arti di Agrigento e l’Istituto Europeo per il Design di Roma. È dunque un cosmopolita che tratta la materia al pari di carne viva. Tra il figurativo e l’astratto la sua ricerca si incanala verso forme che, simbioticamente, scambiano inquietudini appartenenti all’essere umano contemporaneo. Le fisionomie, indefinite e conturbanti, permettono al fruitore di porsi in ascolto in un vuoto dimensionale, lasciando che le emozioni possano identificarsi nelle icone create. Nell’opera ‘’…Silenzio’’ la comunicazione è plasmata nell’argilla e scavata nella sofferenza di un urlo che rivela una società carnefice, gabbia invisibile da cui è impossibile liberarsi.

CAM ed. 57 Catalogo dell’Arte Moderna Mondadori, p. 200

2021

Prof. Francesco Rizzo

wHellcome distrugge immediatamente la soggettività sotto i colpi sprezzanti dell’ironia. Tre sculture fanno da cornice a tre prospettive antinomiche ma eterogenee: wHELLcome to Amazzonia, wHELLcome to the Sea e wHELLcome to Antartica.

La trilogia ha scopo di denuncia sociale e ambientale: denuncia l’uomo e il suo atteggiamento non curante nei confronti di un pianeta allo stremo. Tutte le opere presentano un dissidio uomo-natura, espresso perlopiù con exaptation filogenetiche ed ontogenetiche. La premessa estetica preponderante è dunque la tecnica umana come vuoto principio. L’uomo, infatti, ingrato custode dell’eterna Babele, torna in questa trilogia a condannare la sua superbia senza vergogna. La mano, simbolo di operazioni complesse e consapevoli, attraverso le quali si sono potute manifestare le prime capacità creative peculiari dell’uomo, tornano come ultime ed escatologiche, tementi e tremanti nel ritrattarne l’origine.

WHELLCOME TO AMAZZONIA

Come ciglia a protezione di un occhio così la corteccia fa scudo al dorso della mano, lasciando scoperto il palmo. To Amazzonia allegorizza quanto accaduto nell’omonima terra dal 2018 al 2021: incendi di natura dolosa, ostensione crudele dell’ignoranza umana. L’uomo non sa perché non può migliorare l’ambiente. Può e sa perfettamente come non abusarne, ma sceglie comfort e vizi, come idoli di felicità. Ciò che brucia non è infatti ciò che l’uomo preserva, né ciò che l’uomo trascura. Anzi, tutto ciò che viene scartato dall’uomo è il rovesciamento stesso del suo atto di cura. Ciò che l’uomo riesce a scartare è in realtà la sua unica risorsa. Ciò che l’uomo riesce a rifiutare, a non assumere come bisognoso di sé, è ciò che autenticamente conserva la sua libertà.

WHELLCOME TO THE SEA

Dialettizza la situazione attuale del mare, con isole di plastica galleggianti e interi ecosistemi inquinati dal petrolio. L’opera non è una vera metamorfosi ma rimane appunto un segno di contraddizione. Il rifiuto che orbita attorno alla mano dell’uomo resta lì per essere amato. Come in un dramma euripideo l’insicurezza e l’oggetto del male si trasformano in slancio vitale verso il corretto utilizzo. La metafora non c’è, non ci sarà, ne potrà mai esserci. I rifiuti non esistono.

WHELLCOME TO ANTARCTICA

Se Satana regge l’inferno punendo i cattivi, allora è dei buoni? Se il ghiaccio si scioglie per darci un avviso forse ci sentiamo troppo importanti? Un orologio rotto segna l’ora esatta almeno due volte al giorno?

  • Dall’Alaska alle Alpi, dal Canada all’Himalaya, le grandi riserve di ghiaccio si stanno sciogliendo e rilasciano una grande quantità di acqua che innalza il livello dei mari.
  • Lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia raddoppierà entro la fine del secolo. Se tutta la calotta polare presente dovesse sciogliersi, il livello dei mari salirebbe di quasi 6 metri.
  • Oggi l’Artico si sta riscaldando due volte più velocemente di qualsiasi altra parte della terra e il ghiaccio marino sta diminuendo di oltre il 10% ogni 10 anni.
  • I microbi patogeni intrappolati nel ghiaccio milioni di anni fa potrebbero portare ad epidemie locali e persino pandemie se rilasciati nell’ambiente.

NON C’È ALCUN PERICOLO IN VISTA

È il nostro sguardo a sottoporci responsabilità trascendentali. Il cambiamento climatico non è per l’appunto il “cambiare impensato” di qualcosa di stabile. Il cambiamento climatico è la cifra stessa dell’universo e del suo divenire.

Non è l’ambiente ad essere in pericolo, ma la nostra compostezza olimpica, sdraiata, in coppia con la nostra noia borghese. È colpa della nostra mente, per la quale, assolutamente, ogni soffio della fortuna si fà e pretende d’essere verità e natura.

Prof. Francesco Rizzo, Presidente di Hosàytos

2020

ARTE Mondadori N° 566 pag. 49

La fisionomia indefinita, attraente e conturbante, permette al fruitore di porsi in ascolto in un vuoto dimensionale, lasciando che le emozioni possano identificarsi in quel volto che parla un linguaggio universale scavato nella sofferenza. Urlo… Strepito… Ululato… Atto che sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra.

Arte Mondadori N. 566, p. 49

2020

Prof. Massimiliano Porro

Ciò che non può danzare sul bordo delle labbra, va a urlare in fondo all’anima.
(Christian Bobin)

Un urlo silenzioso soffocato sul confine tra realtà e incubo. La mimica facciale dell’opera di Giuseppe Miccichè rivela le difficoltà relazionali tra essere umano e società circostante, una società che lo rende prigioniero di una gabbia invisibile, carcere desolante che non lascia possibilità di liberarsi. L’argilla cotta è plasmata con tensione nervosa ed energia pronte ad esplodere; la materia si fa dunque manifesto visivo del mondo contemporaneo. La fisionomia indefinita, attraente e conturbante, permette al fruitore di porsi in ascolto in un vuoto dimensionale, lasciando che le emozioni possano identificarsi in quel volto che parla un linguaggio universale scavato nella sofferenza. Urlo… Strepito… Ululato… Atto che sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra secondo il filosofo Emanuele Severino. Grido di caccia, di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Un suono primitivo che, dalla notte dei tempi attraversa il vento e la terra, la nube e il mare, l’albero, la pietra, il fiume. Giuseppe, dunque, con questa scultura svela un personalissimo percorso a tappe dove, ad ogni sosta, accade un incontro e uno scambio viscerale che attraversa, in questo caso, la plasticità della sostanza corporea per giungere a luoghi oscuri e reconditi. Una ricerca esclusiva che ci interpella in modo potente e prepotente, un’immagine che moltiplica all’infinito una eco mentre l’universo intero diviene cassa di risonanza di un modus vivendi giunto alle soglie di un’Apocalisse ineluttabile.

Prof. Massimiliano Porro, Storico e Critico d’Arte

2017

Prof. Dario Orphée La Mendola

Tra le pagine più belle del genio di Munari, spiccano sicuramente quelle sulla metodologia progettuale. E non è tanto per la chiarezza di esposizione (la chiarezza sarà sempre la componente primaria della bellezza). Il fascino maggiore, a mio avviso, sta nell’aver posto, con il seguente ragionamento, una sorta di metodologia al quadrato. Sostiene infatti Munari che: la soluzione a un problema di design è una soluzione a un problema dell’esistenza.
Di metodi, nella storia del pensiero occidentale, vien subito alla mente il più celebre: «[…] avendo notato che nel “penso, dunque sono”, non vi è null’altro che mi assicuri che dico la verità, se non il fatto che vedo chiarissimamente che, per pensare, bisogna essere, giudicai di poter prendere per regola generale, che le cose che noi concepiamo in modo molto chiaro e distinto son tutte vere; ma che c’è solo qualche difficoltà a cogliere bene quali son quelle che concepiamo distintamente», scriveva Cartesio.
E distintamente, spesso (il pensiero umano è infinito anche per tale motivo), concepiamo le situazioni limite. Queste situazioni sono quelle che incuriosiscono di più. Perché sul limite (non oltre) può esserci di tutto; nonostante esso sia invisibile, e, paradossalmente, valutabile. Uno tra questi limiti, e anche qui l’ausilio di Munari è fondamentale, divide l’operato di due professionisti: l’artista e il designer.
Quando tale operato rimane distinto, e tuttavia compie, a partire da un metodo, prodotti che inseriremmo nella sfera artistica, assistiamo al sorgere di una sorta di deflagrazione. Non so se Giuseppe Miccichè (di cui ho analizzato a fondo il guizzo intuitivo) direbbe con me che la soluzione a un problema di arte è una soluzione a un problema dell’esistenza, parafrasando Munari. Però sono certo che, in grafica, con il suo gusto essenziale, vicino all’ironico (e qui, ironico, è prettamente etimologico), evitando in ogni modo possibile qualsiasi inutile perdita di tempo all’occhio e alla conseguente elaborazione, egli esprimerebbe quanto il metodo, e le varianti estetiche, suggeriscono al senso interno della bellezza. Nelle sue opere, da ravvisare, vi è innanzitutto l’immediatezza visiva, ornata da una cifra stilistica minimale. E le cromie, le dinamiche, i significati celati e la fusione tra elementi apparentemente distanti, come in un’improvvisa proposizione ispirataci da un bel paesaggio, divengono luminosità concettuali.

Prof. Dario Orphée La Mendola, Critico d’Arte